Una iscrizione celebre e la fortuna di Benedetto Varchi
Palazzo Martini è un edificio ben noto nel centro storico di Montevarchi, per il suo nobile aspetto di residenza gentilizia lungo la via più rappresentativa della città, e per il fatto che fin dall’Ottocento viene associato al nome di un personaggio illustre, il letterato e storico Benedetto Varchi. Non molti, però, prestano attenzione al testo dell’iscrizione che celebra quel legame del palazzo con il Varchi, che fu lì apposta nel 1829 per interessamento del presidente dell’Accademia del Poggio, Francesco Martini:
Varchi viene qui celebrato non tanto per le sue opere letterarie, per le funzioni di console dell’Accademia fiorentina dal 1545, e neppure per la responsabilità nella Collegiata di San Lorenzo nei suoi ultimi anni, che lo avvicinò alla sua terra d’origine molto di più di quanto non fosse stato nel resto della sua vita. Quello che l’iscrizione loda sono le opere storiche di Varchi, e il fatto che egli avesse conservato la sua libertà e la sua fedeltà al vero della storia ‘benché protetto’ dal granduca Cosimo I de’ Medici, senza essere sviato né corrotto dal successo e dalla fortuna.
In quelle righe c’era molto dell’immagine risorgimentale di Benedetto Varchi, e non poco anche delle ambiguità e delle tensioni che ne accompagnarono la carriera. Il Varchi infatti era stato in gioventù un fervente repubblicano: in particolare aveva sostenuto convintamente le sorti della Repubblica fiorentina, il regime instaurato in città dopo la seconda cacciata dei Medici nel 1527. Quando la famiglia riprese il controllo di Firenze nel 1530, per un lungo periodo Varchi restò lontano dalla patria e frequentò la cerchia degli Strozzi, intorno ai quali si era riunita la parte di chi ancora sperava di rovesciare il principato mediceo. Solo dal 1543 in poi fece ritorno a Firenze e iniziò un rapido ravvicinamento all’ambiente mediceo.
Ma le passioni giovanili trovano molto spazio nelle pagine della Storia fiorentina che Varchi, proprio su indicazione di Cosimo I, scrisse tra il 1546 e il 1547. Nel racconto degli anni 1527-1530, e in particolare dell’assedio imperiale di Firenze prima della caduta del 1530, sono abbondanti i riferimenti alla virtù del popolo fiorentino nella sua disperata resistenza contro la barbarie dei tiranni. E non mancava neppure il Valdarno: a Varchi risale il racconto della storia tragica di Lucrezia Mazzanti, giovane sposa di un fiorentino che le truppe spagnole alleate dei Medici avevano rinchiuso nel castello di Incisa: molestata da un soldato nemico, la donna scelse di uccidersi gettandosi in Arno piuttosto che cedere alle violenze. Il nome della ragazza, lo stesso della celebre Lucrezia delle storie romane che Bruto vendicò ponendo fine alla monarchia di Tarquinio il Superbo e iniziando la storia della Roma Repubblicana, ne faceva un modello perfetto, un simbolo del coraggio del popolo libero disposto ad ogni sacrificio pur di non cedere la propria dignità alla tirannide degli eserciti stranieri.
La Storia del Varchi, quindi, era un’opera di convinta fede repubblicana. Troppo forse, per un autore che aveva riavviato la sua carriera all’ombra del principato di Cosimo. Il primo granduca di Toscana fu molto generoso con Varchi, che assunse ruoli di grandissimo prestigio e pubblicò opere celebrate e famose. Tra queste però non vi fu la Storia, che rimase inedita, e pur essendo conosciuta non trovò mai la pubblicazione a stampa: la prima edizione comparve dopo secoli, nel 1721, con un luogo di stampa fittizio, e comunque in un periodo in cui la storia della dinastia medicea volgeva ormai al termine.
E non a caso nei decenni del Risorgimento le Storie del Varchi ebbero un momento di grande fortuna, perché lette come prefigurazione delle guerre degli italiani contro la dominazione straniera. Proprio alla figura di Lucrezia Mazzanti un patriota valdarnese, Antonio Brucalassi, dedicò nel 1838 una lapide a Incisa, in cui il ricordo del sacrificio dell’eroina non nascondeva un appassionato richiamo al suo valore per il presente: “né a lei / maggiore dell’altra Lucrezia / i tempi consentirono un Bruto / e la Repubblica fiorentina periva”.
All’inizio dell’Ottocento, insomma, poteva ancora suscitare ammirazione che un intellettuale ‘mediceo’ come Varchi avesse dedicato pagine appassionate alla libertà della Repubblica, tali da dare ispirazione agli ideali risorgimentali che stavano per fiorire. Ma i compromessi e le difficoltà di conciliare la ‘libertà’ con il ‘vero’ erano stati, anche per questo illustre autore del Cinquecento, davvero non da poco.
Lorenzo Tanzini
Presidente dell'Accademia Valdarnese del Poggio